Degassamento magmatico: una chiave per capire le eruzioni dei vulcani basaltici

Elaborati nuovi modelli geochimici per fornire un ulteriore strumento di interpretazione e comprensione degli eventi eruttivi, anche ai fini della valutazione della pericolosità nelle crisi vulcaniche.

I risultati sono contenuti nello studio “Intense overpressurization at basaltic open-conduit volcanoes as inferred by geochemical signals: the case of the Mt Etna December 2018 eruption, appena pubblicato sulla rivista Science Advances.

Etna_2018.jpgCombinando la stima della ricarica del magma in profondità con le misure del degassamento vulcanico, un team di ricercatori dell’Osservatorio Etneo e della Sezione di Palermo dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) ha quantificato l’elevata pressurizzazione in cui si trovava l'Etna prima dell'inizio dell'eruzione del dicembre 2018.

L’Etna, infatti, è stato utilizzato come caso studio grazie all’importante estensione delle reti di monitoraggio e sorveglianza, sviluppate anche nell’ambito della cooperazione tra INGV e Dipartimento della Protezione Civile, atte a misurare il degassamento del vulcano.

Lo studio ha affrontato la questione irrisolta del bilancio tra i gas esistenti in profondità in un sistema vulcanico e il loro degassamento in superficie. Gli scienziati hanno valutato, in primis, le misurazioni dei flussi e della composizione chimica dei gas vulcanici emessi dall’Etna a partire da un paio di anni prima dell'attività eruttiva indagata.

L’idea innovativa si è sviluppata confrontando la quantità di gas emessi in atmosfera e quella risalente dalla crosta profonda insieme al magma. Quest’ultima è stata calcolata tramite un originale approccio individuato nella recente ricerca dell’INGV “Temporal variations of helium isotopes in volcanic gases quantify pre-eruptive refill and pressurization in magma reservoirs:The Mount Etna case”, che utilizza i dati geochimici in un modello fisico e chimico di pressurizzazione della camera magmatica. Si è dunque quantificato che, al momento dell’eruzione di dicembre, il sistema vulcanico aveva già accumulato una quantità enorme di fluidi magmatici che non avrebbe potuto essere efficacemente rilasciata dal normale degassamento vulcanico. In tal modo, si è resa disponibile l'energia necessaria per l’intrusione di due dicchi (ovvero, fratturazioni subverticali delle rocce, determinate dalla spinta del magma in risalita) e per l’apertura della frattura eruttiva, riattivando lo scivolamento del fianco orientale della montagna ed innescando, infine, l'esplosione parossistica.

“Il nostro studio ha evidenziato un disequilibrio tra la quantità di gas normalmente risalente con il magma dal mantello al di sotto di un vulcano e quella emessa nelle fasi pre- e inter-eruttive”, spiega Antonio Paonita, ricercatore dell’INGV. “Riconoscere e quantificare quasi in real time tale ‘disequilibrio’ e la sua evoluzione fornisce una nuova chiave interpretativa per la valutazione dello “stato di attività” del vulcano. Questo aspetto può essere molto importante anche per contribuire alla previsione dell’attività vulcanica specialmente in zone in cui si registra un’alta densità di popolazione”.

Lo sbilanciamento tra gas accumulati in profondità e quelli emessi in superficie si aggiunge alla ben nota discrepanza tra i volumi di magma che si stima siano immagazzinati nella crosta rispetto ai volumi effettivamente emessi in superficie, argomento ancora di vivace dibattito nella comunità scientifica.

“Sono stati elaborati modelli termodinamici del degassamento magmatico dell’eruzione di dicembre 2018”, spiega il ricercatore. “In tal modo, abbiamo rilevato che i vari tipi di segnali geochimici da noi monitorati ‘vedono’ diverse finestre di profondità nel sistema di alimentazione del magma, permettendo di seguire la tempistica della risalita magmatica e di ipotizzare che la preparazione dell’eruzione di dicembre iniziò quasi due anni prima dell’evento stesso”.

Infatti, altro aspetto interessante che è derivato dallo studio riguarda la stima dei tempi di realizzazione dell’intero processo che lega i fenomeni profondi alle manifestazioni superficiali osservate.

“Abbiamo potuto osservare che il processo eruttivo complessivo dell’eruzione di dicembre, inteso come quello che lega l’inizio dell’input magmatico profondo alla manifestazione eruttiva in superficie, è durato circa due anni. Questo lungo processo di accumulo non si esaurisce quasi mai in un unico evento eruttivo, per quanto violento, ma necessita di tempi lunghi per poter essere dissipato. L’Etna ci conferma continuamente questo aspetto con le sue attività eruttive molto frequenti, tra cui emergono eventi particolarmente energetici come l’eruzione del 2018, e che alla lunga tentano di riportare un equilibrio tra ingressi di fluidi e magma dal profondo ed emissioni di lava e gas in superficie”.

“I risultati dello studio”, conclude Paonita, “rappresentano un significativo passo avanti nella comprensione dell'escalation delle eruzioni nel vulcanismo basaltico in generale. L'Etna è l'archetipo di un sistema basaltico a condotto aperto ed è probabile che processi simili operino in molti vulcani in tutto il mondo”

La ricerca pubblicata ha una valenza essenzialmente scientifica, priva al momento di immediate implicazioni in merito agli aspetti di protezione civile.

Paonita A., Liuzzo M., Salerno G., Federico C., Bonfanti P., Caracausi A., Giuffrida G., La Spina A., Caltabiano T., Gurrieri S., Giudice G. (2021) Intense overpressurization at basaltic open-conduit volcanoes as inferred by geochemical signals: the case of the Mt Etna December 2018 eruption. Sciences Advances, 7, 36

L’articolo è liberamente scaricabile al link: https://www.science.org/doi/epdf/10.1126/sciadv.abg6297